domenica 8 febbraio 2015

Lo shopping (feat. Bauman&Dorling)


Noi ora siamo tutti consumatori, consumatori prima di tutto e sopra a tutto, consumatori per diritto e per dovere.
All’indomani dell’attentato terroristico dell’11 settembre George Bush, invitando gli americani a superare il trauma e a ritornare alla normalità, non trovò meglio da dire che “ritornate a fare shopping”.
E’ il livello della nostra attività di fare acquisti e la facilità con cui ci liberiamo di un oggetto di consumo per sostituirlo con uno “nuovo e migliorato” che noi impieghiamo come metro principale della nostra posizione sociale e come punteggio nella competizione per il nostro successo nella vita.
A tutti i problemi che incontriamo sulla strada che ci allontana dai dispiaceri e ci porta verso la soddisfazione cerchiamo la soluzione nei negozi.
Dalla culla alla bara siamo educati e addestrati a trattare i negozi come farmacie piene di medicine per curare o almeno mitigare tutte le malattie e afflizioni della nostra vita e della vita in generale.
I negozi e il fare compere acquistano così una piena e autentica dimensione escatologica.
I supermercati sono i nostri templi e le liste di acquisti i nostri breviari, mentre i quattro passi lungo le strade dello shopping diventano i nostri pellegrinaggi.
Comprare d’impulso e liberarsi degli oggetti in nostro possesso non più abbastanza attraenti, per mettere al loro posto quelli attualmente più attraenti, sono le nostre emozioni più entusiasmanti.
La pienezza di godimento del consumatore significa pienezza di vita.
Faccio acquisti, quindi sono. Fare acquisti o non fare acquisti, è questo il problema.
Per i consumatori manchevoli, la versione aggiornata dei non abbienti, il non fare acquisti rappresenta lo stigma stridente e avvilente di una vita non realizzata, lo stigma del proprio non essere nessuno ed essere un buono a niente. Non solo dell’assenza di piacere, ma dell’assenza di dignità umana.
Per i membri legittimi della congregazione, i supermercati possono essere i templi di culto e destinazioni di pellegrinaggi rituali.
Per gli scomunicati, trovati carenti e quindi banditi dalla chiesa dei consumatori, sono invece gli avamposti del nemico, provocatoriamente insediati sulla terra del loro esilio. Bastioni pesantemente sorvegliati sbarrano l’accesso ai beni che proteggono gli altri da un simile destino: come George Bush dovrebbe ammettere, essi sbarrano il ritorno (e per i più giovani che non hanno ancora mai avuto occasione di sedere su un banco della chiesa, l’accesso) alla “normalità”.
Inferriate e persiane di acciaio, telecamere a circuito chiuso, guardie di sicurezza in uniforme all’ingresso e in abiti borghesi all’interno non fanno che appesantire l’atmosfera da “campo di battaglia” e di ostilità in corso. Quelle cittadelle armate e strettamente vigilate del “nemico in mezzo a noi” servono giorno dopo giorno a rammentare la degradazione, l’inferiorità, la miseria e l’umiliazione degli indigeni.
Spesso in effetti la nostra vita sembra un mero cercare di fare un punteggio migliore del vicino.
Ma “il fare sempre meglio degli altri” presuppone la disuguaglianza delle posizioni sociali.
Ma che poi: meglio in che cosa?
Il punto dunque è se le gioie della convivialità (ma questo per ora non è dato saperci) siano capaci di sostituire il perseguimento della ricchezza, il godimento dei beni di consumo offerti dal mercato e l’arte di fare sempre meglio degli altri, combinati nell’idea di crescita economica infinita, nel loro ruolo di ricette quasi universalmente accettate di vita felice.
Nella sua tagliente e brillante vivisezione dell’attuale stato di diseguaglianza, Daniel Dorling, docente di Geografia umana all’Università di Sheffield, suggerisce enfaticamente che:
“La diseguaglianza sociale nei Paesi ricchi persiste a causa della continua credenza nei dogmi dell’ingiustizia, e per la gente sarebbe un trauma scoprire che potrebbe esserci qualcosa di sbagliato nel tessuto ideologico della società nella quale viviamo. Come quelli le cui famiglie possedevano piantagioni coltivate dagli schiavi dovevano considerare naturale quel tipo di proprietà al tempo della schiavitù, e come il non voto alle donne era considerato un tempo una condizione di natura, così tante grandi ingiustizie dei nostri giorni sono per molti semplicemente parte del panorama della normalità.”

Già, i dogmi della crescita economica infinita, del perseguimento fine a se stesso della ricchezza, vengono sempre difficilmente verificati, controllati e meditati; sono le tacite, raramente articolate credenze attraverso le quali pensiamo, senza renderci conto che in questo modo ci formiamo opinioni che non hanno altro fondamento se non queste stesse credenze. 


Il Signor L.



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